Paziente scappa: infermiere si infortuna inseguendolo - Infortunio non riconosciuto
Cassazione Civile, 17 aprile 2012, n. 6002 - Infortunio di un infermiere durante l'inseguimento di un paziente fuori dai locali del nosocomio: modalità comportamentali gravemente imprudenti
Fatto
Con sentenza in data 2.2/12.8.2010 la Corte di appello di Venezia confermava la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta da A. M. nei confronti dell'Azienda Unità Locale Socio Sanitaria n. (...) Regione Veneto per il risarcimento dei danni sofferto a seguito di infortunio sul lavoro avvenuto il 16.7.1999.
Osservava la Corte territoriale che l'obbligazione di lavoro assunta dal M. che lavorava presso l'Azienda ospedaliera quale infermiere professionale, non comportava l'esigibilità della condotta nel caso tenuta dal dipendente, e precisamente l'inseguimento del paziente fuori dai locali dell'ospedale, utilizzando modalità gravemente imprudenti (scavalcamento del cancello).
Per la cassazione della sentenza propone ricorso A.M. che con tre motivi.
Resiste con controricorso l'Azienda intimata.
Diritto
1. Con il primo motivo, svolto ai sensi dell'art. 360 n. 5 cpc, il ricorrente lamenta che senza alcuna motivazione la corte veneziana aveva ritenuto che l'inseguimento del paziente fosse avvenuto al di fuori dell'ambiente sanitario e che tale circostanza fosse conforme all'esito dell'istruttoria.
Con il secondo motivo, svolto ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc, il ricorrente denuncia violazione dell'art. 2047 c.c.. degli artt. 1 ss della legge n. 180 del 1978 e degli artt. 2 e 3 della Costituzione ed, al riguardo, osserva che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che il dovere di sorveglianza (nei confronti di paziente affetto da grave disturbo psicotico) fosse limitato all'ambito ospedaliero in quanto quest'ultimo non era interdetto, né in regime di trattamento sanitario obbligatorio, ma di ricovero volontario, trascurando, però, di considerare che il dipendente era tenuto ad esercitare la dovuta sorveglianza ex art. 2047 c.c., al fine di evitare che il paziente potesse produrre danni per sé o altri.
Con il terzo motivo, infine, il ricorrente, denunciando ancora violazione di legge (art. 360 n. 3 cpc in relazione all'art. 2 del DPR n. 1124 del 1965 e all'art. 2087 c.c.), rileva che la decisione impugnata, nell’escludere la riconducibilità del danno al titolo dell'obbligazione, aveva fatto propria una nozione di rischio elettivo non conforme a quella legale, non risultando, nel caso, una deviazione, puramente arbitraria, della condotta del dipendente dalle normali modalità della prestazione di lavoro.
2. I motivi possono essere esaminati congiuntamente, in ragione della loro connessione sul piano logico e giuridico, e risultano infondati.
3. Sostiene il ricorrente che la condotta che ha determinato l'infortunio non era tale da determinare una deviazione puramente arbitraria dalle normali modalità della prestazione lavorativa, e che, pertanto, a torto la Corte di merito ha ritenuto che il danno che ne era derivato non fosse riconducibile al titolo dell'obbligazione di lavoro.
Così impostata, nei suoi termini essenziali, la questione controversa, deve ritenersi che la stessa implichi un preliminare momento di chiarificazione circa gli ambiti di rilevanza che assume, rispetto alla tutela della persona del lavoratore, il rischio professionale e l'obbligazione di sicurezza del datore di lavoro prevista dall'art. 2087 c.c..
E' ben noto come la nozione di rischio professionale stia all'origine stessa del sistema della sicurezza sociale e come la stessa si fondi sul superamento del principio di diritto comune della responsabilità per colpa, attraverso l'introduzione di un criterio alternativo, fondato sull'imputazione al datore di lavoro, entro limiti predeterminati, della responsabilità oggettiva connessa all'esercizio di attività economiche vantaggiose per l'imprenditore, e , comunque, necessarie per il progresso sociale, ma rischiose e potenzialmente produttive di danno per i lavoratori.
L'adozione di tale criterio ha comportato che il datore di lavoro, entro i limiti dell'obbligo assicurativo, sia chiamato a rispondere non solo dei danni sofferti dal lavoratore che gli possano essere imputati a titolo di responsabilità per colpa (propria o dei propri sottoposti), ma pure di quelli che, accaduti nello svolgimento dell'attività lavorativa, siano conseguenza di caso fortuito, di forza maggiore o anche di colpa dello stesso lavoratore, con il solo limite dell'atto puramente arbitrario.
Si è così realizzata una soluzione, come si è detto in dottrina, eminentemente transattiva, in virtù della quale i datori di lavoro vedono ampliata la sfera della propria responsabilità, ma ne rispondono secondo le forme dell'assicurazione obbligatoria, mentre i lavoratori, in cambio della maggior tutela, ricevono un ristoro solo parziale del danno sofferto, dal momento che la tutela previdenziale, non solo non interviene per le lesioni lievi, ma neppure garantisce la piena equivalenza tra l'entità del danno sofferto e la prestazione economica in concreto erogata. Non vi è dubbio che sulla linea di demarcazione fra rischio professionale e responsabilità civile abbia inciso la previsione dell'art. 2087 ce, e sopra tutto la lettura costituzionalmente orientata che della stessa ha progressivamente offerto la giurisprudenza, ma senza certo annullarla, né nella sua dimensione teorica, né nei suoi spazi operativi, pur notevolmente ridotti dalla esistenza di un espresso obbligo di protezione, dal momento che . neppure nel l'ordinamento del lavoro, è, comunque, penetrata, sino alle sue estreme conseguenze, l'idea della responsabilità civile (oggettiva) per rischio professionale.
Giova sul punto ribadire che, con l'art. 2087 c.c., la protezione della persona fisica e morale del lavoratore è divenuta oggetto del debito contrattuale del datore di lavoro e che la stessa, traendo linfa dai precetti costituzionali, si è rivelata come "norma aperta ai mutamenti economico-sociali", capace di realizzare una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive del lavoratore, alla luce della direttiva della "massima sicurezza ragionevolmente praticabile" (v. sul punto Corte di giustizia CE, 14.6.2007, causa C-127/05).
In questo contesto, il debito di sicurezza si è risolto essenzialmente in un obbligo di prevenzione, che, come già osservava questa Corte con la sentenza n.4012 del 1998 (richiamando la decisione della Corte Costituzionale n. 399 del 1996, in ordine alla "generale e comune pretesa dell'individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongono a rischio" il bene essenziale della salute ), "abbraccia ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi" e , da questo punto di vista, è anche norma di chiusura del sistema.
Se, pertanto, è richiesto al datore di adottare, non solo le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione al tipo di attività svolta, ma ogni altra misura che, alla luce dell'evoluzione tecnica e scientifica, sia dettata dalla specifica situazione di rischio (così ex plurimis Cass. n. 17314/2004), ciò non vale a negare ogni differenza tra rischio professionale e responsabilità per colpa, fra protezione indennitaria e tutela risarcitoria.
Ha precisato sul punto la giurisprudenza di legittimità che l'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. che non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva, impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore in base all'esperienza e alla tecnica; tuttavia, da detta norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa (così da ultimo Cass. n. 8710/2007), dal momento che la colpa costituisce, comunque, elemento della responsabilità contrattuale del datore di lavoro (v. Cass. n. 10579/2008).
E, del resto, la stessa evoluzione normativa, nel momento in cui ha esteso, con il decr.leg. n. 38 del 2000, la copertura assicurativa al danno biologico, e cioè al danno alla persona in sé, ha confermato ancora una volta la distinzione fra risarcimento e indennizzo, prevedendo, ad un tempo, la riduzione dell'area della responsabilità civile del datore di lavoro e l'estensione dei contenuti della tutela del lavoratore, che, però, se viene garantito anche dagli eventi di danno riferibili ad un suo comportamento colposo, realizza, tuttavia, tale garanzia solo entro i limiti del trattamento assicurativo previsto.
4. Dalle considerazioni che precedono deriva che le condizioni per la tutela risarcitoria non possono essere eguali a quelle previste per la tutela assicurativa.
Il che rileva, in specie, per ciò che riguarda l'occasione di lavoro che ha determinato l'evento infortunistico.
Afferma, al riguardo, la giurisprudenza di questa Suprema Corte che ad escludere l’indennizzabilità del sinistro non basta l’atto colpevole del lavoratore, e cioè l’atto volontario posto in essere con imprudenza, negligenza o imperizia, ma che, motivato comunque da finalità produttive, non vale ad interrompere il nesso fra l'infortunio e l'attività lavorativa, come, invece, deve ritenersi allorché il comportamento del dipendente sia del tutto arbitrario ed abnorme, in quanto determinato da "impulsi puramente personali'" (v. Cass. n. 11417/2009 e ivi ult. Rif).
Ma tali condizioni se sono sufficienti per riconoscere l’indennizzabilità del sinistro, e, quindi, la responsabilità del datore di lavoro per rischio professionale, non appaiono certo sufficienti ad affermare la tutela risarcitoria del lavoratore, che presuppone la responsabilità per colpa del datore di lavoro.
Non configurando, infatti, l'art. 2087 c.c. una ipotesi di responsabilità oggettiva, non basta, a tal fine, che si dia prova che il comportamento del lavoratore, per quanto incongruo rispetto alle stesse direttive del datore di lavoro, sia, comunque, inerente all'attività lavorativa, ma è necessario che il comportamento del datore di lavoro sia qualificato da uno specifico disvalore.
5. Nel caso in esame, dalla ricostruzione in fatto operata dai giudici di appello emerge che l'infortunio avvenne durante l'inseguimento di un paziente (peraltro, in regime di ricovero volontario) fuori dai locali del nosocomio e per effetto di modalità comportamentali gravemente imprudenti (scavalcamento del cancello).
Il ricorrente afferma che tale comportamento non poteva ritenersi estraneo alle mansioni lavorative, ma il punto è che il processo non offre alcuna prova (né, comunque, viene data alcuna allegazione ) di un comportamento colpevole del datore di lavoro, e cioè della ricollegabilità del sinistro alla violazione di un obbligo di diligenza del datore di lavoro nella predisposizione di misure idonee a prevenire ragioni di danno per i propri dipendenti.
La Corte territoriale ha fatto riferimento all'inesigibilità della condotta del ricorrente; va ulteriormente precisato che, nel caso, quel che rileva è l'insussistenza delle condizioni di operatività dell'obbligo di sicurezza, sotto il profilo dell'indimostrata esigibilità di una diversa e specifica condotta protettiva del datore di lavoro.
Ne deriva che l'infortunio, ancorché indennizzabile (ed indennizzato), non è, tuttavia, risarcibile.
6. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Sussistono giusti motivi, in considerazione della peculiarità della fattispecie e delle motivazioni del comportamento del lavoratore, per compensare tra le parti le spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
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