Batteri in corsia
SALUTE – Ammalarsi in ospedale: è ciò che accade quando si contrae una infezione ospedaliera, ossia una patologia infettiva, causata da microrganismi, che sopraggiunge durante la degenza in ospedale.
A oggi le infezioni ospedaliere sono monitorate e trattate secondo protocolli ben precisi ed è possibile identificare con metodi tradizionali quale sia il microrganismo che causa l’infezione in ogni paziente, ma non è possibile stabilire con certezza se lo stesso ceppo di una famiglia sia coinvolto nell’infezione di più pazienti, con la possibilità che si origini una infezione epidemica.
Per scoprire i collegamenti tra batteri infettanti pazienti diversi, i ricercatori del Wellcome Trust Sanger Institute, dell’Università di Cambridge e del Cambridge University Hospitals hanno utilizzato per la prima volta una tecnologia di sequenziamento del DNA per identificare con precisione la presenza di un focolaio epidemico di Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA). Scoprire che il batterio fosse identico in ogni paziente ha infatti permesso di stabilire la presenza di una epidemia nascente, da bloccare. Il team coinvolto nello studio, pubblicato su The Lancet, ha analizzato, con la tecnica del sequenziamento, il DNA dei campioni di MRSA isolato da 12 pazienti, dimostrando che si trattava dello stesso batterio trasmesso da un paziente all’altro.
“Il problema”, spiega Luigi Toma, responsabile infettivologo degliIstituti Fisioterapici Ospitalieri di Roma e presidente dell’associazione L’ANCIO (L’Associazione Nazionale Contro le Infezioni Ospedaliere), nata da pazienti e società civile per combattere le infezioni ospedaliere, “consiste proprio nel mettere in relazione il germe isolato da sangue, urine e liquidi biologici riscontrato in pazienti diversi, con un possibile episodio epidemico”. Solo attraverso metodiche di biologia molecolare e analisi genetica è infatti possibile stabilire se lo stesso batterio ha causato l’infezione in due o più pazienti: “se identificassimo lo stafilococco in due pazienti attraverso metodiche classiche –continua Luigi Toma – non potremmo capire se si tratta dello stesso batterio appartenente al medesimo ceppo, perché la famiglia risulta molto estesa”. È tuttavia importante ricordare che non sempre una infezione ospedaliera può trasformarsi in epidemia, “certo è che in caso di focolaio epidemico, i metodi di identificazione standard non sono sufficienti”.
Per approfondire il problema delle infezioni ospedaliere abbiamo intervistato Luigi Toma e Piero Marone, direttore della S.C di virologia e microbiologia del Policlinico San Matteo di Pavia.
Quando si può parlare di infezione ospedaliera?
Marone: Le infezioni ospedaliere sono oggi più correttamente definite infezioni correlate all’assistenza, quindi complicanze infettive contratte da persone ricoverate in ospedale o assistite in ambito territoriale (ambulatori, assistenza domiciliare, residenze assistite) che non erano né presenti né in incubazione prima dell’intervento assistenziale. Il panorama della sanità è profondamente mutato negli ultimi anni: l’invecchiamento della popolazione, l’incremento di pazienti con deficit immunitario, la riorganizzazione delle strutture di ricovero e cura (che comprendono non solo l’ospedale per acuti ma anche il centro di riabilitazione e la residenza sanitaria assistita) e infine il ricorso sempre più frequente all’assistenza domiciliare e ambulatoriale hanno portato a complicanze infettive correlate ad atti medici e infermieristici.
Quali sono le infezioni più comuni e quanti i casi registrati?
Toma: Nel complesso i numeri sono ancora alti, dai 500.000 ai 750.000 casi l’anno, dei quali il 70% non può essere oggetto di prevenzione perché coinvolge pazienti sottoposti a interventi invasivi, chemioterapia, radioterapia, spesso si tratta di pazienti con altre patologie, spiega Toma, o con un sistema immunitario compromesso nei quali sono gli stessi batteri presenti fisiologicamente nel nostro organismo a provocare l’infezione. Ad esempio in caso di interventi invasivi a livello addominale i batteri fisiologicamente presenti nel tratto gastrointestinale entrano nel circolo sanguigno dando origine a un’infezione che può aggravarsi fino alla sepsi. Il restante 30% invece può essere prevenuto, abbattendo quindi queste cifre, grazie alle buone prassi adottate dagli operatori sanitari: una su tutte il lavaggio costante delle mani. Il 26% dei casi di infezione registrati coinvolge l’apparato urinario, il 25% sono localizzate nell’apparato respiratorio, le infezioni del sangue sono circa il 18% del totale e infine le infezioni delle ferite chirurgiche, che si infettano perché sulla pelle abbiamo alcuni batteri che possono penetrare nonostante i trattamenti di disinfezione, occupano un 16% delle casistiche.
In che modo possono insorgere queste infezioni?
Marone: Alcuni fattori di rischio possono favorire il manifestarsi di complicanze infettive, tra questi va ricordato il ricorso a procedure invasive diagnostiche o terapeutiche e la presenza di malattie che si associano a deficit del sistema immunitario. In particolare, le procedure invasive consentono ai microrganismi l’accesso diretto a siti del nostro corpo normalmente sterili e la presenza di corpi estranei (cateteri, valvole cardiache, protesi) può favorire la moltiplicazione di batteri adesi alle superfici di questi dispositivi. Inoltre i microrganismi possono essere portati da un paziente all’altro con le mani del personale addetto all’assistenza. I pazienti si colonizzano con batteri che non raramente sono resistenti agli antibiotici e in presenza di fattori di rischio possono sviluppare un’infezione.
Quali sono le misure preventive adottate negli ospedali per evitare che insorgano?
Toma: Dal 1985 esistono misure ospedaliere valide su tutto il territorio nazionale, e in ogni ospedale è prevista la presenza di un Comitato per le Infezioni Ospedaliere il cui compito è proprio quello di far rispettare e mettere in pratica le buone pratiche e le procedure per prevenire e gestire queste infezioni. La gestione consiste nell’identificazione del microrganismo sia nel singolo paziente sia nell’eventuale focolaio, utilizzare la terapia appropriata e tempestiva e allarmare gli operatori sanitari. Il personale deve quindi seguire le procedure studiate per evitare che l’infezione venga “trasportata” in un altro paziente. Ad esempio è necessario indossare camici, guanti e materiale sterile e monouso.
Marone: Le infezioni correlate all’assistenza rappresentano un rischio per la sicurezza del paziente per cui esiste unanime consenso sulla necessità di porre in atto misure di prevenzione, il cui rapporto costo/beneficio è generalmente favorevole. Pertanto la sorveglianza e prevenzione delle infezioni in ospedale rappresenta un obiettivo istituzionale delle Aziende Ospedaliere. Perché il programma possa avere successo è necessario coinvolgere diverse figure professionali con specifiche competenze, poter contare sul sostegno di tutta la comunità ospedaliera, avere a disposizione figure dedicate (medici ed infermieri) e disporre di opportune risorse finanziarie e di personale. L’attività di coordinamento ed indirizzo del programma di controllo spetta al Comitato per le Infezioni Ospedaliere che si avvale di un Gruppo Operativo ristretto e degli specialisti addetti al controllo delle infezioni. Gli obiettivi prioritari di un programma di controllo devono comprendere: la sorveglianza del fenomeno utilizzando indicatori clinici pertinenti, l’avvio di programmi di revisione della qualità dell’assistenza per problemi specifici, un’efficace campagna per promuovere una corretta igiene delle mani, la messa a punto di presidi più sicuri e meno invasivi, programmi incisivi di controllo dell’uso degli antibiotici, l’identificazione dei patogeni ospedalieri, la caratterizzazione dei profili di resistenza, l’individuazione delle vie di contagio, e della circolazione in ospedale dei microrganismi, l’identificazione e sorveglianza dei cosiddetti patogeni “sentinella”. Inoltre sarà indispensabile l’utilizzazione di metodiche molecolari per la caratterizzazione e la tipizzazione epidemiologica dei microrganismi patogeni (dimostrare se un singolo ceppo ha infettato più pazienti, “tracciare” la circolazione dei batteri in ospedale, studiare i focolai epidemici).
Vantaggi e svantaggi dei metodi attuali per l’identificazione dell’infezione
Marone: Le metodiche di identificazione oggi in uso, sebbene in modo variabile a seconda del microrganismo in analisi, hanno caratteristiche di specificità, sensibilità, potere di discriminazione, rapidità di esecuzione e basso costo. Tuttavia, anche le più complete e sensibili tra queste a volte presentano un livello di discriminazione insufficiente a distinguere ceppi filogeneticamente molto vicini. Un secondo limite delle attuali metodiche di epidemiologia molecolare è quello di essere, con poche parziali eccezioni, non descrittive. Esse infatti catalogano il microrganismo studiato secondo uno schema, ma non sono in grado di valutare le caratteristiche specifiche del ceppo, e devono essere per questo affiancate da altre metodologie per la caratterizzazione genotipica e fenotipica dell’organismo. Una serie di tecnologie innovative per il sequenziamento del DNA possono risolvere queste criticità.
Il metodo di sequenziamento utilizzato a Cambridge.
Toma: Questo metodo non è del tutto nuovo poiché da tempo si conoscono le potenzialità dell’analisi genetica per identificare un microrganismo e stabilirne con precisione il ceppo di provenienza. Questa tecnica tuttavia risulta ancora molto costosa rispetto ai metodi standard, utili per identificare il batterio, ma privi della capacità di stabilire la presenza di un focolaio epidemico. A Cambridge sono infatti riusciti a stabilire con precisione la presenza di un focolaio epidemico dovuto a stafilococco aureo meticillino-resistente, anche 64 giorni dopo che l’ultimo paziente positivo per l’MRSA aveva lasciato il reparto – Special Care Baby Unit (dedicata ai bambini) – quindi senza un apparente collegamento. La speranza è che questa tecnologia in futuro possa essere presente in ogni struttura di cura, diventando di routine.
A oggi le infezioni ospedaliere sono monitorate e trattate secondo protocolli ben precisi ed è possibile identificare con metodi tradizionali quale sia il microrganismo che causa l’infezione in ogni paziente, ma non è possibile stabilire con certezza se lo stesso ceppo di una famiglia sia coinvolto nell’infezione di più pazienti, con la possibilità che si origini una infezione epidemica.
Per scoprire i collegamenti tra batteri infettanti pazienti diversi, i ricercatori del Wellcome Trust Sanger Institute, dell’Università di Cambridge e del Cambridge University Hospitals hanno utilizzato per la prima volta una tecnologia di sequenziamento del DNA per identificare con precisione la presenza di un focolaio epidemico di Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA). Scoprire che il batterio fosse identico in ogni paziente ha infatti permesso di stabilire la presenza di una epidemia nascente, da bloccare. Il team coinvolto nello studio, pubblicato su The Lancet, ha analizzato, con la tecnica del sequenziamento, il DNA dei campioni di MRSA isolato da 12 pazienti, dimostrando che si trattava dello stesso batterio trasmesso da un paziente all’altro.
“Il problema”, spiega Luigi Toma, responsabile infettivologo degliIstituti Fisioterapici Ospitalieri di Roma e presidente dell’associazione L’ANCIO (L’Associazione Nazionale Contro le Infezioni Ospedaliere), nata da pazienti e società civile per combattere le infezioni ospedaliere, “consiste proprio nel mettere in relazione il germe isolato da sangue, urine e liquidi biologici riscontrato in pazienti diversi, con un possibile episodio epidemico”. Solo attraverso metodiche di biologia molecolare e analisi genetica è infatti possibile stabilire se lo stesso batterio ha causato l’infezione in due o più pazienti: “se identificassimo lo stafilococco in due pazienti attraverso metodiche classiche –continua Luigi Toma – non potremmo capire se si tratta dello stesso batterio appartenente al medesimo ceppo, perché la famiglia risulta molto estesa”. È tuttavia importante ricordare che non sempre una infezione ospedaliera può trasformarsi in epidemia, “certo è che in caso di focolaio epidemico, i metodi di identificazione standard non sono sufficienti”.
Per approfondire il problema delle infezioni ospedaliere abbiamo intervistato Luigi Toma e Piero Marone, direttore della S.C di virologia e microbiologia del Policlinico San Matteo di Pavia.
Quando si può parlare di infezione ospedaliera?
Marone: Le infezioni ospedaliere sono oggi più correttamente definite infezioni correlate all’assistenza, quindi complicanze infettive contratte da persone ricoverate in ospedale o assistite in ambito territoriale (ambulatori, assistenza domiciliare, residenze assistite) che non erano né presenti né in incubazione prima dell’intervento assistenziale. Il panorama della sanità è profondamente mutato negli ultimi anni: l’invecchiamento della popolazione, l’incremento di pazienti con deficit immunitario, la riorganizzazione delle strutture di ricovero e cura (che comprendono non solo l’ospedale per acuti ma anche il centro di riabilitazione e la residenza sanitaria assistita) e infine il ricorso sempre più frequente all’assistenza domiciliare e ambulatoriale hanno portato a complicanze infettive correlate ad atti medici e infermieristici.
Quali sono le infezioni più comuni e quanti i casi registrati?
Toma: Nel complesso i numeri sono ancora alti, dai 500.000 ai 750.000 casi l’anno, dei quali il 70% non può essere oggetto di prevenzione perché coinvolge pazienti sottoposti a interventi invasivi, chemioterapia, radioterapia, spesso si tratta di pazienti con altre patologie, spiega Toma, o con un sistema immunitario compromesso nei quali sono gli stessi batteri presenti fisiologicamente nel nostro organismo a provocare l’infezione. Ad esempio in caso di interventi invasivi a livello addominale i batteri fisiologicamente presenti nel tratto gastrointestinale entrano nel circolo sanguigno dando origine a un’infezione che può aggravarsi fino alla sepsi. Il restante 30% invece può essere prevenuto, abbattendo quindi queste cifre, grazie alle buone prassi adottate dagli operatori sanitari: una su tutte il lavaggio costante delle mani. Il 26% dei casi di infezione registrati coinvolge l’apparato urinario, il 25% sono localizzate nell’apparato respiratorio, le infezioni del sangue sono circa il 18% del totale e infine le infezioni delle ferite chirurgiche, che si infettano perché sulla pelle abbiamo alcuni batteri che possono penetrare nonostante i trattamenti di disinfezione, occupano un 16% delle casistiche.
In che modo possono insorgere queste infezioni?
Marone: Alcuni fattori di rischio possono favorire il manifestarsi di complicanze infettive, tra questi va ricordato il ricorso a procedure invasive diagnostiche o terapeutiche e la presenza di malattie che si associano a deficit del sistema immunitario. In particolare, le procedure invasive consentono ai microrganismi l’accesso diretto a siti del nostro corpo normalmente sterili e la presenza di corpi estranei (cateteri, valvole cardiache, protesi) può favorire la moltiplicazione di batteri adesi alle superfici di questi dispositivi. Inoltre i microrganismi possono essere portati da un paziente all’altro con le mani del personale addetto all’assistenza. I pazienti si colonizzano con batteri che non raramente sono resistenti agli antibiotici e in presenza di fattori di rischio possono sviluppare un’infezione.
Quali sono le misure preventive adottate negli ospedali per evitare che insorgano?
Toma: Dal 1985 esistono misure ospedaliere valide su tutto il territorio nazionale, e in ogni ospedale è prevista la presenza di un Comitato per le Infezioni Ospedaliere il cui compito è proprio quello di far rispettare e mettere in pratica le buone pratiche e le procedure per prevenire e gestire queste infezioni. La gestione consiste nell’identificazione del microrganismo sia nel singolo paziente sia nell’eventuale focolaio, utilizzare la terapia appropriata e tempestiva e allarmare gli operatori sanitari. Il personale deve quindi seguire le procedure studiate per evitare che l’infezione venga “trasportata” in un altro paziente. Ad esempio è necessario indossare camici, guanti e materiale sterile e monouso.
Marone: Le infezioni correlate all’assistenza rappresentano un rischio per la sicurezza del paziente per cui esiste unanime consenso sulla necessità di porre in atto misure di prevenzione, il cui rapporto costo/beneficio è generalmente favorevole. Pertanto la sorveglianza e prevenzione delle infezioni in ospedale rappresenta un obiettivo istituzionale delle Aziende Ospedaliere. Perché il programma possa avere successo è necessario coinvolgere diverse figure professionali con specifiche competenze, poter contare sul sostegno di tutta la comunità ospedaliera, avere a disposizione figure dedicate (medici ed infermieri) e disporre di opportune risorse finanziarie e di personale. L’attività di coordinamento ed indirizzo del programma di controllo spetta al Comitato per le Infezioni Ospedaliere che si avvale di un Gruppo Operativo ristretto e degli specialisti addetti al controllo delle infezioni. Gli obiettivi prioritari di un programma di controllo devono comprendere: la sorveglianza del fenomeno utilizzando indicatori clinici pertinenti, l’avvio di programmi di revisione della qualità dell’assistenza per problemi specifici, un’efficace campagna per promuovere una corretta igiene delle mani, la messa a punto di presidi più sicuri e meno invasivi, programmi incisivi di controllo dell’uso degli antibiotici, l’identificazione dei patogeni ospedalieri, la caratterizzazione dei profili di resistenza, l’individuazione delle vie di contagio, e della circolazione in ospedale dei microrganismi, l’identificazione e sorveglianza dei cosiddetti patogeni “sentinella”. Inoltre sarà indispensabile l’utilizzazione di metodiche molecolari per la caratterizzazione e la tipizzazione epidemiologica dei microrganismi patogeni (dimostrare se un singolo ceppo ha infettato più pazienti, “tracciare” la circolazione dei batteri in ospedale, studiare i focolai epidemici).
Vantaggi e svantaggi dei metodi attuali per l’identificazione dell’infezione
Marone: Le metodiche di identificazione oggi in uso, sebbene in modo variabile a seconda del microrganismo in analisi, hanno caratteristiche di specificità, sensibilità, potere di discriminazione, rapidità di esecuzione e basso costo. Tuttavia, anche le più complete e sensibili tra queste a volte presentano un livello di discriminazione insufficiente a distinguere ceppi filogeneticamente molto vicini. Un secondo limite delle attuali metodiche di epidemiologia molecolare è quello di essere, con poche parziali eccezioni, non descrittive. Esse infatti catalogano il microrganismo studiato secondo uno schema, ma non sono in grado di valutare le caratteristiche specifiche del ceppo, e devono essere per questo affiancate da altre metodologie per la caratterizzazione genotipica e fenotipica dell’organismo. Una serie di tecnologie innovative per il sequenziamento del DNA possono risolvere queste criticità.
Il metodo di sequenziamento utilizzato a Cambridge.
Toma: Questo metodo non è del tutto nuovo poiché da tempo si conoscono le potenzialità dell’analisi genetica per identificare un microrganismo e stabilirne con precisione il ceppo di provenienza. Questa tecnica tuttavia risulta ancora molto costosa rispetto ai metodi standard, utili per identificare il batterio, ma privi della capacità di stabilire la presenza di un focolaio epidemico. A Cambridge sono infatti riusciti a stabilire con precisione la presenza di un focolaio epidemico dovuto a stafilococco aureo meticillino-resistente, anche 64 giorni dopo che l’ultimo paziente positivo per l’MRSA aveva lasciato il reparto – Special Care Baby Unit (dedicata ai bambini) – quindi senza un apparente collegamento. La speranza è che questa tecnologia in futuro possa essere presente in ogni struttura di cura, diventando di routine.
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