L'INFERMIERE, UN'ALTRA PARTE DEL CIELO
La malattia colpisce direttamente ed indirettamente l’essere umano: c’è chi la fronteggia portandosela addosso e chi la deve affrontare perché è un familiare o un amico o un infermiere o un medico o uno psicologo, ma si è tutti parte di un unico cielo di cui, prima o poi, ci si accorge.
Un giorno come tanti altri.
Torni a casa e hai una moglie che ti aspetta. C’è da andare a fare la spesa, in posta a pagare le bollette, andare a cena da amici … e solo venti minuti prima sei uscito dal tuo reparto.
Hai affidato i pazienti che avevi al tuo collega, com’è di routine, e sei andato via.
Non sei stanco, o almeno non sempre, ma hai bisogno di quei venti minuti prima di arrivare a casa per scaricare tutto, lasciarti alle spalle la mattinata passata … non puoi portare il lavoro a casa … si dice così, no?
Il punto è questo. Che si dice, ma la maggior parte delle volte non lo si fa.
Un aforisma arabo recita :
“Fai un lavoro che ami e non dovrai lavorare mai per il resto della tua vita”
Semplicemente vero.
Il lavoro dell’infermiere è spesso associato alla pratica, alla manualità, alla fisicità e meno alla spiritualità, all’emozione o al semplice pensare.
Eppure, nella testa dell’infermiere, non appena quella barra magnetica viene strisciata per confermare la sua presenza nel reparto, arrivano una tempesta di informazioni, ricordi, avvenimenti … e pensa … l’infermiere pensa.
Entri in reparto.
C’è un marito che sta bevendo un caffè dopo aver passato la notte accanto alla moglie, una badante che arriva, con la sua borsa, perché quella mattina dovrà assistere un paziente, una mamma ancora preoccupata per la situazione clinica di suo figlio … e li saluti … perché li conosci.
E pensi.
Pensi che è strano come delle persone passino un determinato periodo della loro vita senza conoscersi, senza vedersi, con la condizione naturale che nessuno sa dell’esistenza dell’altro. Ed è molto strano che per uno scherzo del destino, brutto o bello che sia, inizino a passare molto tempo insieme legandosi così, come se niente fosse, come se fosse normale … naturale.
E’ sempre la medesima cosa che penso ogni qualvolta un medico viene in infermeria e dice:
“Ragazzi domani entra un paziente, nuova diagnosi.”
Tutti penseranno che la prima cosa che ti vien da chiedere è se è giovane o anziano, se è autosufficiente o allettato … invece no … la prima cosa che penso è:
“Bene! arriva di nuovo qualcuno che nel bene o nel male ti lascerà qualcosa.”
Ed è così. Il più delle volte si attribuisce all’infermiere la capacità di infondere coraggio, di avere una parola di conforto nel suo taschino, di riuscire a risollevare il morale … ma non è niente vero, o almeno non sempre.
I pazienti sono talmente impegnati con le loro trivelle a buttare giù la montagna che si è presentata davanti che non si accorgono che sono loro che fanno molto, che infondo fiducia e coraggio non solo agli infermieri e ai medici, ma anche ai familiari e agli amici.
Mi chiedo sempre: prova tu a far battute o semplicemente a ridere per una battuta mentre sei steso su un letto d’ospedale e l’infermiere, che canta perennemente, ti infonde quella maledetta sacca argentata? Perché poi quest’infermiere canta sempre? Cosa ha da cantare? Vede gente che vuole divertirsi qui? Non vede che c’è gente che non gliene importa niente se domani piove o nevica? E poi tutte quelle risate che si sentono fuori, quei lamenti al mattino … cosa vi lamentate? … almeno voi vi alzate e andate a lavorare … Cosa dovrei dire io?…
Forse, anzi, sicuramente io sarei questo tipo di paziente … il problema è che però sono quel tipo di infermiere.
Quell’infermiere che arriva in reparto fischiettando, somministra terapia cantando e va a casa sorridendo. Non riesco, e non ho la minima intenzione di portare malinconia o semplicemente la rima della bocca abbassata di fronte a loro. Non se lo meritano.
Ogni giorno ho di fronte a me una mamma che all’ora delle compresse avrebbe dovuto accompagnare la figlia a scuola; un manager che, all’ora dell’infusione di chemioterapia, sarebbe dovuto essere su un volo di linea; un ragazzo che, all’ora della buona notte, dovrebbe essere in un pub ad ammazzarsi dalle risate con gli amici e flirtare con qualche ragazza …
Entri nella stanza e inizi a parlare. E mentre parli cerchi di capire che tipo è quella mamma, se le piace parlare o ascoltare; cosa piace al manager, se preferisce leggere o guardare un film e come si trova il ragazzo in una stanza singola, se preferisce invece una doppia.
E parli … e ascolti … e pensi …
E scopri che la mamma oltre alla figlia ha due cani, ma odia i gatti; che il manager aveva paura di volare e che il ragazzo non ha mai fatto l’amore è ha paura di non poterlo mai provare.
E tutto ti diventa familiare. Il salutarsi per nome, il sapere che oggi il marito non verrà, perché deve andare a sbrigare faccende burocratiche, che la mamma non verrà, perché oggi l’altro figlio ha la recita scolastica … e ti leghi … ti leghi … ti … leghi.
E ti leghi talmente tanto che non ti bastano venti minuti per smaltire tutto, perché pensi a quella mamma che, mentre sei a casa con tua moglie, le verrà detto che la terapia non ha risposto e dovrà iniziarne un’altra; al manager, mentre starai facendo la spesa, gli verrà detto che la febbre è causata dalla polmonite; e quando tu arrivi a casa dai tuoi amici per la cena programmata da tempo, al ragazzo inizieranno gli effetti collaterali della chemioterapia.
Ci si sforza, mi sforzo di non pensarci e il più delle volte non funziona.
Hai la necessità di chiamare in reparto per sapere come va, ma non è il caso … tanto torni domani. Vorresti mandare un sms al tuo collega per sapere come è andato il pomeriggio, ma il tuo collega sarà impegnato … e quindi è meglio non pensarci.
E pensi.
Forse nessuno se ne accorge, ma l’infermiere ha la capacità di capire determinate cose anche solo vedendo i parenti fuori dalle stanze.
Infatti, torni la mattina dopo e ti accorgi che il marito non è alla macchinetta per prendere il caffè e sai per certo che è accanto a sua moglie a stringerle la mano; la mamma starà accanto al figlio pronta con il catino per il vomito; e ti accorgi delle emocolture sul bancone e senza leggere il nome sai che sono del manager.
E inizi una nuova mattinata. Sorriso, ma non con le labbra, ma con gli occhi. Non si riesce a vedere il sorriso dietro la mascherina … gli occhi sì … e quelli parlano.
Entri in stanza in punta di piedi perché devi svegliare la mamma per il prelievo. Svegliare … non penso abbia dormito, ma non devi farglielo notare. Vai a fare l’ennesimo prelievo al manager e entri nella stanza del ragazzo, il letto è vuoto … torni dopo.
E si va avanti così.
Sempre.
Si cerca sempre di dare il meglio, di fare il meglio.
Non so se fra altri cinque anni sarò così, se mia moglie mi sopporterà ancora, se avrò sempre voglia di cantare … si vedrà. Per ora posso solo dire che il mio lavoro mi piace, lo faccio con passione e spero che questo si possa capire.
Il lavoro dell’infermiere comprende anche vittorie e sconfitte, complimenti e rimproveri, gioie e dolori.
I complimenti, com’è giusto che sia, non si dimenticano facilmente, e ricordo ancora quello di una moglie di un paziente. E’ stato ricoverato molto tempo e quindi il legame era ormai molto forte. Ci chiamavamo per nome. Sapevo quasi tutto. Quanto bene voleva a suo nipote. Che tipo di padre è stato per i suoi figli e che splendido marito era. Sua moglie, dopo avermi aiutato a cambiarlo per l’ennesima volta , spolto per il sudore a causa della febbre, mi appoggiò le mani sulle spalle e in un momento di sconforto disse:
“Io non so quanto bene tu possa volere a tua madre, ma devi ringraziarla sempre, ogni giorno della tua vita, per come ti ha fatto, e per quello che sei. Non avresti potuto fare altro che questo lavoro”.
Come puoi non tornare a casa sorridendo?
E come puoi tornare a casa e non pensare a loro?
Non penso che questo sia l’esempio del “portarsi a casa il lavoro” ma solo semplice umanità e non penso ci sia niente di così sbagliato.
Ferruccio
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