Infermieri, perno principale nella riduzione della mortalità negli ospedali
Uno studio pubblicato di recente sulla rivista Lancet conferma il ruolo decisivo degli infermieri negli esiti dell’assistenza ospedaliera sui pazienti.
Un aumento dei carichi di lavoro degli infermieri ospedalieri per ciascun paziente aumenta la probabilità di morte in ospedale del 7 per cento. Inoltre, uno staff infermieristico più preparato è associato con un minor numero di decessi: per ogni aumento del 10 per cento di infermieri con diplomi di laurea, diminuisce del 7 per cento il rischio di morte. Insomma, laddove gli infermieri devono occuparsi di un minor numero di pazienti e dove il loro livello formativo è più elevato si riduce significativamente il numero delle persone che muoiono durante il ricovero.
A questi risultati è arrivato uno studio (denominato RN4CAST, da Registered Nurses Forecasting) sostenuto dal Settimo programma quadro dell'Unione europea e dall'Istituto nazionale di ricerca infermieristica (Ninr ) del National Institutes of Health britannico, pubblicato sul finire dello scorso febbraio dalla rivista Lancet.
I risultati dello studio potrebbero forse apparire banalmente intuitivi, ma è chiaro che non è per nulla banale poter contare sui risultati scientifici dello studio più ampio e più analitico mai realizzato in Europa sul rapporto tra numero e livello formativo del personale infermieristico e gli esiti dell’assistenza sui pazienti ospedalizzati.
D’altronde, commenta Lancet, lo studio è stato progettato per fornire prove scientifiche ai decisori europei nella pianificazione della forza lavoro per il futuro e i suoi risultati forniscono importanti elementi per migliorare l'assistenza ospedaliera in un contesto di risorse scarse e di riforme dei sistemi sanitari.
Lo studio. Una équipe di ricercatori guidati da Linda Aiken, della University of Pennsylvania School of Nursing di Philadelphia, e da Walter Sermeus dell'Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, ha esaminato i dati delle dimissioni ospedaliere di quasi 500 mila pazienti di nove Paesi europei che hanno subito interventi chirurgici comuni. Hanno inoltre esaminato l’attività di oltre 26.500 infermieri per misurarne il numero e il livello formativo nei diversi ospedali. Infine, il team ha analizzato i dati ottenuti mettendoli in relazione con la probabilità di morte del paziente entro trenta giorni dalla data del ricovero.
I risultati. Ebbene, ne è risultato che i pazienti dimessi da ospedali dove il 60 per cento degli infermieri era laureato e ciascuno di loro doveva prendersi cura di una media di sei pazienti presentavano un rischio inferiore di quasi un terzo di morire in ospedale rispetto a quelli ricoverati in strutture dove solo un terzo degli infermieri era laureato e ciascuno di loro doveva farsi carico mediamente di otto pazienti.
I commenti degli autori. «Il nostro studio – ha spiegato Aiken – è il primo che indaga l’attività del personale infermieristico in diversi Paesi europei e la analizza in rapporto agli esiti clinici obiettivi piuttosto che nei resoconti dei pazienti o degli infermieri. I nostri risultati – ha precisato – integrano le ricerche che negli Stati Uniti collegano il miglior livello dello staff infermieristico con la diminuzione della mortalità». Negli Usa, le ricerche sul rapporto “clinico” del personale infermieristico con gli esiti sui pazienti hanno influenzato leggi o proposte di legge in quasi 25 Stati. Inoltre hanno condizionato le raccomandazioni dell’Istituto di Medicina, per il quale entro il 2020 l’80 per cento degli infermieri statunitensi dovrà essere laureato. Dal canto loro, gli ospedali hanno risposto a questa raccomandazione assumendo preferibilmente infermieri muniti di laurea.
«Costruire le basi scientifiche per la pratica clinica – ha sottolineato Patricia A. Grady, direttore del Ninr - è stato a lungo un obiettivo fondamentale della ricerca infermieristica e del lavoro sostenuto da Ninr. Questo studio valorizza il ruolo che gli infermieri svolgono nel garantire risultati positivi ai pazienti e conferma la necessità di avere un personale adeguatamente formato». Lo studio «è un altro esempio – ha concluso Grady – di come la scienza infermieristica possa contribuire a politiche che promuovano risultati positivi per i pazienti non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo».
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